Provo sempre una sorta di fastidio tutte le volte che mi appresto a scrivere ex novo, rivedere, aggiustare per l’azienda di turno il mio curriculum vitae. Una sensazione di soffocamento quella che mi provoca la compilazione del curriculum vitae. Mi siedo davanti al PC e vorrei sottrarmi all’imprescindibile tortura che mi si chiede di infliggermi ogniqualvolta che devo presentare me stessa a un ipotetico datore di lavoro.
Il curriculum non deve essere troppo lungo (cestino garantito!), va sempre adattato alla posizione professionale per la quale si invia, meglio scriverlo seguendo un modello prestabilito (ultimamente l’Europass va per la maggiore) o piuttosto utilizzare una struttura personalizzata, è importante che in esso appaiano le esperienze fondamentali, eccetera, eccetera, eccetera. Insomma bisogna pesare le parole, tagliare qua e là un percorso ricco di sfumature, emozioni, incontri che hanno fatto una vita. Accanto all’insofferenza, sento frustrazione ma anche inadeguatezza. Ma le tengo per me, vagano in me senza una collocazione cosciente, senza potersi esprimere in una forma razionale. Fino a quando…
Fino a quando non incontro una voce di corrispondenza, un pensiero eccentrico, nel senso di fuori dal comune e diverso rispetto al volere “dominante”, che illumina il mio sentire e lo rende chiaro. È una voce ironica, acuta, ma soprattutto è una voce femminile. È quella della grandissima poetessa polacca Wislawa Szymborska che, in Scrivere un curriculum, si esprime così:
Che cos’è necessario? È necessario scrivere una domanda, e alla domanda allegare il curriculum. / A prescindere da quanto si è vissuto è bene che il curriculum sia breve. / È d’obbligo concisione e selezione dei fatti. Cambiare paesaggi in indirizzi e malcerti ricordi in date fisse. / Di tutti gli amori basta quello coniugale, e dei bambini solo quelli nati. / Conta di più chi ti conosce di chi conosci tu. I viaggi solo se all’estero. L’appartenenza a un che, ma senza perché. Onorificenze senza motivazione. / Scrivi come se non parlassi mai di te stesso e ti evitassi. / Sorvola su cani, gatti e uccelli, cianfrusaglie del passato, amici e sogni. / Meglio il prezzo che il valore e il titolo che il contenuto. Meglio il numero di scarpa, che non dove va colui per cui ti scambiano. Aggiungi una foto con l’orecchio in vista. / È la sua forma che conta, non ciò che sente. Cosa si sente? Il fragore delle macchine che tritano la carta.
“È la sua forma che conta, non ciò che sente”, è apportare etichette, applicare categorie “bianco-nero”, “alto-basso”, “uomo-donna” che conta e non la ricerca di chi siamo veramente, di cosa sentiamo. È la necessità di incasellare, definire a dominare, dominarci.
C’è fame di sfumature, di punti di vista altri. Soprattutto tra e per le donne.
Grazie per le parole che corrono senza nessun peso! complimenti per la scrittura, agile e acuta.
Eccome se c’è fame di sostanza e non di “fuffa” o blablabla…
Speriamo che siano in tante le donne, e perchè non anche gli uomini, che sapranno seguire il loro pensiero eccentrico nel tentativo di parlare di se stessi attraverso un CV. L’importante è il contenuto! grazie