Sono solo tre i mesi che restano ai consigli d’amministrazione per adeguarsi alle quote rosa. In caso di inadempienza sono previste multe (dai centomila al milione di euro per i CdA e dai ventimila ai 200 mila euro per i collegi sindacali), qualora i richiami non dovessero bastare.
Dopo la legge n.120 del 12 luglio 2011 le poltrone occupate da donne sono salite, secondo i dati Consob, del 17,2 %, “un record” per Alessia Mosca, membro del Pd e promotrice, insieme a Lella Golfo (Pdl) della legge entrata in vigore nell’agosto. Entro il 2013 tutte le società quotate dovranno avere un quinto dei dirigenti “in gonnella”, e per il 2015, almeno un terzo, ma se alcune società sono virtuose, altre sono ancora in alto mare. Le donne infatti rappresentano ancora una quota irrisoria nei board di amministrazione in tutto il mondo, nonostante il fatto che alcuni studi confermano addirittura che la presenza del gentil sesso in posti di comando possa migliorare il rendimento. Così come attesta Gender Interactions within the Family Firm, ricerca condotta dal team di economisti Alessandro Minichilli e Mario Daniele Amore dell’università Bocconi e Orsola Garofalo della Universita Autonoma de Barcelona.
Anche se impopolare, ci teniamo a sottolineare che il termine stesso “quote rosa”, benché entrato a pieno diritto nel linguaggio comune, ha in sé qualcosa si sessista, come se quei posti, quelle “quote” appunto, fossero destinate ad una classe specifica a sé: le donne. Se in un’azienda sono disponibili dieci posti, e un concorso stabilisce che i primi dieci sono uomini, allora è giusto che dieci uomini vengano assunti, e lo stesso dicasi nel caso in cui fossero dieci donne a classificarsi prime. La necessità di parlare ancora di quote rosa sembra sottolineare che la parità non c’è e che le donne, nonostante decenni di lotta, hanno ancora bisogno di una garanzia ulteriore per essere prese in considerazione.
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