Quando, un anno fa, mi sono occupata di medicalizzazione della maternità e del rapporto che intercorre tra gravidanza vissuta come “malattia”, paura e tassi di fecondità, non sapevo che da lì a poco sarei rimasta incinta né tanto meno che avrei sentito sulla mia pancia ansie che non immaginavo, considerate “cose delle altre”, che non mi appartenevano.
A suon di inquietudine che sbatteva da una parete all’altra del mio cervello, ho fornito a me stessa la prova provata che l’esperienza supera di gran lunga la teoria.
Nella mia ricerca avevo accolto la tesi dello statistico Roberto Volpi (2007), secondo cui la medicalizzazione della maternità è uno dei principali motivi per cui oggi le donne la considerano complicata e pertanto fanno meno figli. A dimostrazione della sua ipotesi, Volpi porta l’esempio della Toscana, distintasi tra il 2005 e il 2006 per i migliori servizi di tutela alla maternità ma anche per il più alto tasso di denatalità del Paese. Non mi interessa qui discutere sulla relazione tra medicalizzazione della maternità e scarso numero di nascite, ma fermarmi a riflettere su quanto un’eccessiva attenzione medica alla gravidanza possa portare un surplus di ansie alle future madri anziché tranquillizzarle, minando al contempo la loro autonomia.
Che la medicalizzazione della gravidanza sia in aumento ce lo confermano i dati: in Italia, ad esempio, la percentuale di donne che si è sottoposta a più di 7 ecografie è passata dal 23,4% degli anni 1999-2000 al 29% tra il 2004 e il 2005.
“A me non succederà!”, dicevo, “Farò solo le tre ecografie gratuite previste”. Macché! L’inciampo si è presentato da subito quando la mia ginecologa mi disse che era molto importante eseguire una primissima ecografia (non prevista) per verificare che la gravidanza non fosse extra-uterina.
“Mio Dio! Che ansia! Non avevo considerato questo rischio”. L’ho fatta quell’ecografia, la consigliava Lei… Ma l’ansia vera mista ad impotenza è arrivata quando mi è stato chiesto se volevo sottopormi al bitest. “Il bitest?” L’esame da effettuarsi tra l’11° e la 13° settimana di gestazione (bisogna decidere in fretta!) per valutare una probabilità statistica ˗non diagnosi!˗ di anomalia cromosomica del feto. Si limita a suggerire, riporto le parole del foglio informativo, in caso di positività, l’eventuale necessità di effettuare test più diagnostici, ecc.
Non avevo considerato neppure questa possibilità. “Un figlio affetto da anomalie cromosomiche! E pensare che da quando so della gravidanza ho sempre avuto la netta sensazione che il mio feto fosse legato alla vita con le unghie e con i denti. Che fare? Cosa devo fare?”. “Lo fanno tutte, è consigliato”, mi dicevano in molti. “Fallo”. “E poi? E se la statistica mi parla di un alto rischio di anomalia? Mi devo sottoporre ad un altro esame. E poi?” Tante domande che non facevano che aumentare le mie ansie. “Vedrai che sarai più serena dopo che hai fatto il test”. Ma io ero già tranquilla! Sentivo, sapevo che potevo stare tranquilla.
Alla fine, dopo tanto ragionare, ho preso con fatica la mia decisione, ma solo mia, non condizionata piuttosto confrontata con il mio compagno. Ma intanto una bella dose d’ansia era stata inghiottita. E, pur grata alla ricerca medica per tutti i progressi raggiunti, mi chiedo: “Non sarà un po’ esagerato questo gran affidarsi alla medicina? Dove sta il limite oltre il quale la medicalizzazione non dispensa più serenità ma solo ansie inutili?” Non lo so, in ogni caso rimane nell’aria un senso di insicurezza che le donne, uniche vere protagoniste dell’esperienza di gestazione, vivono quando vengono messe (ma sono abituate a questo!) nella condizione psicologica di non disporre di loro stesse attraverso un controllo esterno, più o meno diretto.