Che il lavoro al Sud non c’è, non è una novità e nemmeno che il nostro bello e sfortunato Meridione rischia la “desertificazione industriale”. Secondo quanto rilevato da un rapporto SVIMEZ 2012 – acronimo dell’ Associazione per lo Sviluppo dell’Industria nel Mezzogiorno – al Sud occorrerebbero 400 anni per recuperare lo svantaggio di Pil procapite (per abitante) col resto dell’Italia!
Se non bastasse, nel rapporto emerge un dato rattristante riguardante l’occupazione femminile. Due donne su tre, infatti, rimangono inoccupate e quelle che lavorano devono optare per un contratto part-time, perché non riescono a trovare un posto a tempo pieno.
Ancora una volta, quindi, si parla della donna in senso di fascia debole e da tutelare. Una fascia che è vittima di una vera e propria “segregazione”.
Nonostante il numero di donne laureate e, quindi, in possesso di tutti i requisiti necessari per intraprendere qualsiasi carriera, persiste il problema del contesto socio-culturale, che non permette alle donne né tanto meno ai giovani , di realizzarsi professionalmente.
La storia insegna che il Sud non ha mai avuto una forte vocazione industriale e la crescente crisi ha reso ancora più desolata la situazione; Cosa fare, allora?
La risposta più semplice è partire per il Nord o se si è abbastanza fortunati all’estero. Nel caso del Mezzogiorno, è inutile dire: la storia si ripete, perché qui l’emigrazione c’è da secoli e continua ad aumentare; secondo il rapporto Svimez, negli ultimi dieci anni sono emgritate più di 1,3milioni di persone.
Penso che al Sud, non esiste generazione che non ha avuto il desiderio di fuggire dalla sua terra. A maggior ragione, se si è: giovane, donna e neolaureata.
Purtroppo è un circolo vizioso e il compito di spezzarlo, spetta al popolo unito e non solo ai “giovani”.
L’associazione Svimez intanto, propone un nuovo modello che sia “capace di integrare sviluppo, qualità ambientale, riqualificazione urbana e valorizzazione del patrimonio culturale”.