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8 Marzo, festa della donna. Svegliatevi bambine!

Passato il blizzard e sciolta la neve, il disgelo ci riscalda e la primavera è nell’aria. E proprio mentre siamo vulnerabili e distratte dal cinguettio degli uccellini, mentre cominciamo ad alleggerire il guardaroba con la mente rivolta a pensieri  più frivoli, basta un attimo e in men che non si dica ecco che per le strade cominciano a fiorire mimose in ogni angolo.

Dai fiorai, sui banconi dei bar, sui manifesti, nelle vetrine dei negozi e pure dal parrucchiere. Vita dura davvero quella della mimosa: doveva proprio arrivare qui dalla Tasmania perché il suo destino fosse compiuto. Strappata alla vita selvaggia e alle cure dei koala per venire coltivata in batteria ad uso e consumo dei promoter della Festa della Donna.

Ebbene sì, perché c’è la Festa del Gatto (N.d.R. il 17 febbraio), la Festa e la Sagra del Tartufo, ma ogni 8 marzo arriva anche la cosiddetta Festa della Donna. Senza contare la Festa della Mamma e del Papà (e ringraziamo le profumerie e le maestre elementari che ce le ricordano ogni anno), e pure la Festa della Repubblica e del Lavoro, elementi portanti del nostro senso civico.

Festa della Donna. “Le parole sono importanti”, mi vedo brontolare Nanni Moretti in Palombella Rossa. Ci penso su: ma non troppo. Così, a naso “festeggiare” significherebbe più o meno “ringraziare o dimostrare felicità perché qualcosa c’è, esiste”. Questo significa che io devo essere contenta perché ci sono? Mi devono regalare dei fiori gialli per ricordarmi che posso uscire con le amiche e andare in un locale ad infilare eventualmente una banconota nel perizoma di un California Dream Man locale? Ma per carità, sono solo opinioni le mie. Opinioni di una a cui forse hanno regalato poche mimose dirà qualcuno. Anche se posso vantare qualche diligente collega che ogni anno faceva la felicità del suo pusher di mimose di fiducia, portandoci in ufficio una ventina di mini sparuti mazzetti, uno per ognuna di noi. Donne felici e gongolanti, annusatrici di profumo un po’ pelosetto.

Ma in effetti sono pignola e controllo meglio, Nanni Moretti mi protegge: e infatti l’8 marzo diventa la data definita dalla conferenza di Mosca del 1921 per ricordare la Giornata Internazionale della Donna. Una giornata di riflessione più che di festeggiamento. Una giornata che dovrebbe riportare alla memoria quello che noi donne abbiamo alle spalle e non quello che ci mettono sotto al naso i venditori ambulanti o i produttori di cioccolatini. E dire che comunque fiori e cioccolatini mi piacciono. E pure così tanto che non c’è verso che riesca a mantenere il fioretto di evitare la cioccolata fino a Pasqua. Mi piacciono, sì, ma magari sono meno sospetti in un contesto diverso, che possa essere a buon diritto seduttivo, compiacente.

Mentre per l’8 marzo non ci sarebbe assolutamente nulla di cui compiacersi. Anche senza bisogno di correggere la tradizione comune che vorrebbe che l’inizio di tutto coincidesse con la morte di molte operaie in un tragico rogo di una fabbrica di New York nel 1908. Questo mi hanno insegnato a scuola: una festa che ricorda delle vittime. Già un controsenso che mi tornava poco. E oggi scopro di no, che non è così. Che è un enorme falso secondo gli studi che vengono riportati in questo articolo di Repubblica di diversi anni fa.

La Giornata Internazionale della Donna nasce dunque per segnare una tappa nel progresso dei diritti femminili elementari, quello al voto primo tra tutti. E lasciamo da parte le storie politiche che potrebbero urtare gli animi più suscettibili, in particolare di questi tempi, quando parlare di sinistra, destra e partiti sembra solo un pretesto per suscitare confusione. Conserviamo qualcosa che stia al di sopra delle parti e unisca.

Proprio oggi che viene introdotta nel vocabolario comune una parola quasi nuova, di moda. Femminicidio. Un orgoglio potersene riempire la bocca, rubando un termine alla cronaca giudiziaria messicana: la parola “Femminicidio”, che già se la scandisci ti suona di torture e colpi di coltello, racchiude in sé il senso di distruzione fisica, psicologica, economica, istituzionale della donna in quanto tale. Una parola coniata nel 2009 quando la Corte Interamericana dei diritti umani condannò il Messico per le 500 donne violentate e uccise dal 1993 nello Stato di Chihuahua. Chihuahua. Lo ripeto perché fa veramente poca allegria in questo contesto.

Così si parte dalle battaglie sociali condotte dalle femministe americane e russe per arrivare a questo punto. Un punto in cui Rashida Manjoo, la relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla violenza contro le donne, dice che questa “è la prima causa di morte in Italia per le donne tra i 16 e i 44 anni”. Femminicidio. Violenza che dal 70 all’80% dei casi si consuma all’interno della famiglia. Femminicidio. Un fenomeno che secondo la Casa delle Donne per non Subire Violenza di Bologna sta diventando “inarrestabile”.

Ora, fermatevi, non voglio fare la bacchettona e la guastafeste. Non voglio ridurre tutti vestiti a lutto, con i musi lunghi. Ma che ci posso fare se mi si blocca la gola mentre guardo il video prodotto da Telefono Rosa per “non festeggiare” questa Giornata? E poco importa che sia introdotto – sul sito di Repubblica – dal modello supremo del profumo di turno, mi pare solo un gesto di cattivo gusto in più. Forse voi dal link ve lo risparmierete, magari per un momento migliore. E non per introdurre un filmato che dà un nome e un volto alle 31 donne uccise dall’inizio dell’anno, 67 giorni ad oggi. Giuro che mi passa tutta la voglia di festeggiare. A meno che non voglia dimostrare di essere felice perché non è capitato a me.

La signorina Silvani di giallo vestita

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